La mia prima pubblicazione (Einaudi) in seguito al primo premio al concorso Grinzane Cavour del 1995 (sezione Giovani).
“Caro amore ti scrivo”
Articolo della Repubblica, 22/6/1995
Non si può davvero dire che l’ amore sia in ribasso: al concorso indetto da la Repubblica (insieme al Grinzane Cavour, all’ editore Einaudi, e alla Città di Torino) hanno partecipato oltre ottomila persone. Con lettere (il tema era: “Scrivi una lettera al tuo primo amore”) che venivano da molto lontano, da ricordi talvolta remoti eppure vivissimi, mai cancellati, o da molto vicino: dall’ altro ieri dei giovanissimi. Ha scritto un chirurgo che non vive più in Italia per ricordare quella bambina che vedeva sul tram, ha scritto un signore piuttosto colto che non ha potuto allegare l’ indirizzo: ora sono un “barbone”, ha dichiarato in calce. Il suo strano primo amore era addirittura un Gesuita. Ma si può dire che la giuria (composta da Natalia Aspesi, Vittorio Bo, Anna Galiena, Paolo Mauri, Ugo Perone, Gianni Rocca, Giuliano Soria e Giuseppe Tornatore) non ha avuto modo di annoiarsi. Avvicinarsi al cuore della gente, essere messi a parte di tante storie private, reali o immaginarie che fossero, è comunque una avventura interessante. Lo si può verificare leggendo le lettere vincitrici e ancor meglio lo si potrà fare quando uscirà il tascabile Einaudi con una più vasta antologia. Il concorso prevedeva due sezioni con due vincitori per ciascuna sezione. La prima, dedicata agli adulti (nati prima del l5 aprile ‘ 72) assegna un premio in danaro di lire due milioni e mezzo: sono risultati vincitori Paola Balzarro e Luigi Ferla. La Giuria ha inoltre segnalato le lettere di Rabie Barakat, Silvia Borzacchini e Francesca Mazzantini. La seconda sezione, dedicata ai giovani, prevede come premio un viaggio-soggiorno di studio in Irlanda offerto da Aer Lingus, Centre of English Studies, Trinity College e University College Dublin. I vincitori sono Nicoletta Di Vincenzo e Francesca Erriu. La Giuria ha inoltre segnalato le lettere di Marta Castano, Mariarosaria Lattari e Andrea Puglisi. La premiazione avrà luogo questa sera alle 2l alla Cavallerizza di Torino (viale delle Carrozze). IL CALORE E IL PROFUMO DELLE TUE BRACCIA Cara Francesca, da quasi dieci anni sono scomparsa dalla tua vita. Me lo hai chiesto tu, ed io ho accettato subito. Non mi pareva di avere alcun diritto di insistere. Mi è capitato molte volte, specie in questi ultimi tempi, di provare – fortissimo – il desiderio di chiamarti, ma mi sono trattenuta. Come sai, reprimermi è una delle cose che mi riescono meglio. Oggi è un bel giorno caldo, sembra già quasi estate. Io sono nel giardino davanti allo studio, con il mio panino. Si sente l’ odore del mare. E’ una delle cose che preferisco di questa città che tu tanto odi e che non hai mai voluto conoscere. Non so come ti immagini le mie giornate qui, se mai ti capita di farlo; probabilmente mi vedi soprattutto alle prese con i miei figli, sommersa da questa scelta di vita familiare, che ci ha separate. Non è così. Dedico a loro solo una piccola parte del mio tempo, e questo mi provoca un senso di colpa profondo e costante, che si somma agli altri. Come sempre, il lavoro mi assorbe quasi del tutto. Sono contenta della specializzazione che ho scelto. So che cosa pensi; faccio la cavadenti in una città di provincia, nello studio di mio suocero: ho tradito i nostri grandi ideali, i nostri progetti quasi missionari di lotta contro la malattia e la morte, possibilmente in qualche paese ancora più disgraziato del nostro. Sinceramente, non mi ci sono mai vista, in quei panni, se non per gioco, come una fantasia affascinante quanto campata per aria. Forse la sciocchezza più grande sta proprio nel non averti detto dall’ inizio che i tuoi sogni erano lontani come pochi altri dalla mia realtà. Ti ammiravo profondamente e mi pareva impossibile che, fra tanti, tu avessi scelto proprio me come oggetto del tuo amore assoluto e appassionato. Sapevi che avevo un ragazzo, questo è chiaro. Anche tu, del resto, non escludevi gli uomini. Ma c’ era, fra noi due, un patto originario, per il quale nulla doveva avere la precedenza sulla nostra amicizia. Quando provavo a parlarti di Riccardo, tu ti rabbuiavi. A un certo punto è diventato molto più facile, per me, non nominarlo proprio. Del resto, la mia vita era strutturata in modo da favorire questa separazione: l’ inverno a Milano, insieme a te e ai nostri amici. L’ estate, al mare, con lui. Non voglio raccontarti adesso quello che Riccardo ha significato – e in parte ancora significa – per me. Vorrei solo spiegarti il fatto che vivevo due vite parallele, che non comunicavano fra loro. Ciascuna era a suo modo completa, ed escludeva l’ altra. Così, nel corso del tempo, ho maturato il desiderio di vivere con lui e di sposarmi, senza riuscire a parlartene. Lo so. Il mio silenzio è stato una vigliaccheria che tu non puoi perdonare. So che è stato terribile, per te, scoprire tutto da mio cugino, per caso, pochi giorni prima che succedesse. Avevo pregato i nostri amici di non dirti nulla, credendo che avrei trovato il modo per parlarti, per spiegarti io. Mi rendo conto ora che non ce l’ avrei comunque mai fatta, che avrei continuato a sperare, fino all’ ultimo, nell’ intervento di qualche angelo. C’ è un’ altra cosa però, della quale mi sento ancora più colpevole e che vorrei dirti adesso, anche se è tardi. Quando mi hai affrontata, chiedendomi che cosa fosse allora, per me, il nostro rapporto, io ho negato tutto. Ti ho detto di non aver provato mai altro che amicizia, di aver subìto i tuoi baci per non contrariarti, di essermi adeguata ad un desiderio che non era il mio. Non è vero, Francesca: sono stata innamorata di te, questo mi è diventato sempre più chiaro, in questi anni. Il tempo trascorso con te è stato importante, lo sono state le notti passate insieme a parlare, fino all’ alba, così come il calore delle tue braccia e il tuo profumo. Anche quando ti ho detto il contrario, sapevo già di mentire. Ma cosa avresti preteso allora, in nome della coerenza? Che buttassi tutto per aria? Non avresti capito le mie contraddizioni, certamente non le avresti accettate. Non so se anche tu pensi a me come al primo amore. Probabilmente sono piuttosto la prima grande delusione, il primo segno che il mondo può fare degli scherzi terribili. Mi dicono che sei diventata più cauta e diffidente. Questo mi dispiace ma, nello stesso tempo, spero che ti aiuti a proteggerti un po’ , a valutare meglio, prima di abbandonarti a qualche cosa o a qualcuno, anima e corpo. Abbi cura di te. Non penso che tu abbia voglia di rivedermi, per ora; ti sembrerà strano, ma credo di sentire ancora le tue emozioni e i tuoi pensieri, nonostante tutto questo tempo e la distanza. So che non ti basterà questa lettera tardiva, per perdonarmi. Però, la vita è lunga, e forse prima o poi succederà. Ciao. Paola Balzarro QUEL GIORNO DEL 1944 SOTTO LA NEVE Una lettera al mio primo amore è purtroppo una lettera alla memoria e la scrivo come se lei mi ascoltasse, come se gradisse il ricordo di quei giorni tanto lontani, indimenticabili e felici pur nel travaglio inesorabile della guerra senza fine. Amore mio, quanto tempo è passato da quel 25 marzo 1945 quando ti ho abbracciata per l’ ultima volta, ignaro che il giorno dopo non ti avrei più rivista? Cinquant’ anni, un secolo, una vita. Eravamo allegri quel giorno: sentivamo nell’ aria non solo la primavera, ma la sensazione sempre più viva che la fine dell’ immane tragedia era ormai vicina. Avevi messo il cappottino azzurro, quello della festa, e un nastro bianco che ti raccoglieva i lunghi capelli. Abbiamo passeggiato a lungo nei giardini della tua cittadina, tenendoci per mano, rinnovando sogni e progetti per un avvenire sereno ormai prossimo. “A domani” ci siamo poi detto, come ogni giorno, da oltre un anno, ma il domani non c’ è stato: qualcuno ti cercava, ti spiava da tempo. Qualcuno sapeva che a sera correvi in montagna da tuo padre, dai tuoi fratelli e portavi loro cibo, notizie, tutta la solidarietà di chi, come loro, aspettava la libertà. E ti hanno seguita ma te ne sei accorta e li hai portati fuori strada, finché ti sei consegnata, volontariamente, per salvare chi ti aspettava; e non hai parlato, neanche con le torture, l’ ultimo atto infame della belva ferita che sta per morire. Ti hanno abbandonata il mattino dopo davanti a casa, senza vita, sfigurata, ignobilmente offesa nella tua intimità. Abbiamo circondato di fiori il tuo corpo e ti abbiamo portata al cimitero e tutti piangevamo, ti chiamavamo e invocavamo da Dio il castigo per gli assassini. Ricordi, Ada, il nostro primo incontro quel giorno di gennaio 1944? Nevicava: tu avevi un fazzoletto in testa e trascinavi un pacco voluminoso. Io, sfollato nella tua cittadina da Milano, girovagavo senza meta e mi accorsi di seguirti. Ci siamo guardati e ci siamo sorrisi: ti ho chiesto se ti potevo aiutare e tu, visibilmente felice, hai detto subito di sì. Sotto la neve, caricati da un peso sempre più greve, ci siamo parlati a lungo: dal fazzoletto ormai fradicio spuntavano i riccioli neri ad incorniciare l’ ovale perfetto del tuo viso; i tuoi occhi azzurri mi circondavano di tanta curiosità, quasi volessero scoprire chi fossi, cosa volessi, cosa facessi. Ci dicemmo tutto: avevi sedici anni, io ventitré. Bastarono pochi minuti per capire che avevamo gli stessi dubbi, le stesse paure, le stesse speranze. Entrambi avevamo qualcosa di cui temere, anche se il tuo segreto non mi riusciva di immaginarlo. Da quel giorno ci siamo visti sempre, ogni pomeriggio: facevamo il solito giro, dalla fermata delle corriere alla chiesa, ai giardini dove in qualsiasi stagione e con qualsiasi tempo, ci sedevamo sulla panchina, mani nella mano e tanto, tanto amore. A volte mi guardavi come se mi volessi dire qualcosa e non potevi farlo: ero certo che cercavi aiuto ma non potevi chiederlo. Ti stringevo vicino e sommessamente ti dicevo: “Ada, cos’ è che ti tieni dentro?”. Ma tu non rispondevi o, mentendo, dicevi che ti preoccupava tua madre. E avrei dovuto capirlo dalla tua espressione di terrore quel giorno che, lungo la statale, transitò quella colonna di mezzi corazzati diretta verso i monti e tu fuggisti a casa motivando un impegno inesistente. Quanto amore, Ada, quante promesse, quanti ricordi e quanti rimpianti. Da cinquant’ anni, ogni anno, il 25 marzo abbandono tutto e tutti e corro da te, sulla tua tomba, che io ho voluto bella, unica, e coi fiori freschi ogni giorno. E ho voluto che fosse ingrandita la tua fotografia migliore, a colori, quella dove sorridi col cappottino azzurro e il nastro bianco. E da cinquant’ anni, Ada, mi tormenta il rimorso e la vergogna al pensiero che mentre tu rischiavi la vita per un ideale e per aiutare chi combatteva per la libertà, io, senza arte né parte, bighellonavo vigliaccamente al comodo riparo di una agiatezza immeritata. Vengo ogni anno, Ada, e continuerò a farlo fino a quando ti raggiungerò per sempre e rivedrò i tuoi riccioli neri, i tuoi occhi azzurri, l’ ovale perfetto del tuo viso e ti potrò dire finalmente che quell’ anno passato vicino a te è stato il più bello della mia vita. Luigi Ferla IO GUFO, TU PIPISTRELLO NELL’ INFINITO Scende la notte; come ogni giorno, anche quando io non voglio, e sono lì, il pipistrello e il gufo. Non so se siano più chiari il flusso, che partendo dalla tua mente, unisce i tuoi ai miei occhi, o le ombre che la Luna proietta su di noi. Scende la notte e il gufo e il pipistrello sono ancora lì, in silenzio. I nostri più bei ricordi sono sposati con le notti e il mare. Camminiamo su isole di quadrati equivalenti, scalfite, scolpite dai nostri silenzi. Su lastre consumate dallo spazio, cospargo la tua vita di pinocchi e tartarughe e tu, su freddi cilindri di piombo fuso blu, riempi i miei avidi occhi di note, parole, poesie, grotte gelide e pietre colorate. I tronchi sono immobili nonostante la loro vita, e noi vaghiamo come creature dell’ Inferno, trascinate dal vento, sbattute sotto vecchie case diroccate, in vicoli ripidi e su pietre arse di mare. Sarò un’ anima condannata a cercarti per sempre, a non trovarti mai, la segreta geometria della scelta, la consapevolezza che per due punti si può tracciare una ed una sola retta. Perché tu non sei reale, sei l’ immagine di uno specchio. Noi non esistiamo, e vorrei incontrarti, senza limiti da porre ai miei pensieri nel punto buio del mio specchio per dirti sempre, sempre. Guardo le mie mani, e vorrei trovare un segno che mi facesse riassaporare le tue camicie a quadri, il rosso della tua stanza, l’ essenza dei tuoi fumetti di ombre, la tua linfa di tenebra e notte, il sapore della pioggia secca di settembre. Conosco i tuoi limiti, le tue bugie blu che galleggiano nell’ aria, i tuoi scritti silenzi invernali, le tue estive debolezze bionde, che tieni per mano, ragionevolmente giustificate, razionalmente accettate ma che mi feriscono ugualmente come piramidi aguzze, conosco le tue segrete verità, o parti di esse, è per questo che credo in te e nulla, neanche una perfetta ed armoniosa ellisse riuscirà a cambiare i miei pensieri. Dentro di me scorre sangue antico. Ciò che ci lega non è definito, è evanescente, è come un etereo anello senza inizio e senza fine, “un tenero fiore pallido”, che ci permette di andare, di volare senza ali. Non importa comunque se siamo al buio o sotto il ramo di una palma all’ ombra, noi possediamo, brilliamo di luce nostra come le stelle siamo lontani anni luce da terra e siamo schegge di ghiaccio e vertici di triangoli. E non importa dove siamo o che distanza ci separa, siamo gruppi di esagoni, e prima o poi c’ incontreremo, e tra noi non ci sarà più nessun tempo. E siamo ancora qui, io il gufo, tu il pipistrello, io nel mare, tu nel cielo, prima o poi ci incontreremo, in un punto infinito dell’ orizzonte, e forse finalmente avremo lo stesso colore. Nicoletta Di Vincenzo VOLEVO ESSERE IL TUO ANGELO CUSTODE Stavo lì da un tempo indefinito, seduta su una roccia, e guardavo. Guardavo te, che correvi senza sosta sulla spiaggia, rincorrendo quel cane che era quasi parte di te, della tua vita. Era strana la tua vita… insoddisfatta, vuota e piena di emozioni allo stesso tempo, solitaria, poi assurdamente caotica. A volte ti sentivi perso, senza un appiglio, qualcuno su cui contare… A volte volevi morire. Ma in quel momento, in quell’ ultimo attimo che mi resta di te, correvi e ridevi come un pazzo, senza pensare a niente. Eppure, quando ti avevo visto per la prima volta, piangevi. Appoggiato alla ringhiera, con il volto seminascosto chino ad osservare l’ acqua lenta del fiume, pensavi se valeva la pena andare avanti così, se volevi ancora soffrire oppure mollare tutto. Andare via… Avrei voluto gridarti qualcosa, ma non riuscivo più a sentire il mio corpo e le mia labbra erano rigide. Non sapevo chi eri, non ti avevo mai visto, eppure soffrivo per te, con te… Chi eri? Avrei voluto parlarti, sfiorarti anche solo con un dito, ma eri troppo lontano, troppo incolmabile era la tua sofferenza. Trovai il coraggio di seguirti, di osservarti, di starti sempre vicino per proteggerti. Volevo essere il tuo angelo custode, volevo ripararti con le mie ali e riportarti alla vita, io che della vita non avevo capito niente. Non avevo vissuto, non avevo amato né odiato, provato mai nulla che mi facesse sentire l’ esistenza. Tu mi hai fatto capire che cos’ è la vita. Tu sapevi quanto fossi importante per me, ti accorgevi dei miei occhi su di te, delle mie lacrime. Eppure, non mi hai mai parlato. Non una parola, un sorriso, un gesto qualunque. Non ho ricevuto mai niente da te, se non un unico, profondo sguardo col quale mi chiedesti aiuto facendomi nello stesso tempo allontanare da te; e fu proprio quel giorno, quando ti vidi disperato sul ponte, il giorno che mi accorsi di non poter fare a meno di te per poter tornare alla vita, quella vita che volevo abbandonare. Ci amavamo così, come di tacito accordo: io un angelo che ti seguiva con l’ idea di salvarti per poi poterti amare; tu, il perseguitato, che si nascondeva per non farsi trovare ma che poi mi cercava. Troppo tardi ho capito che il tuo amore era più grande del mio, e per questo lo nascondevi agli occhi indiscreti del mondo: tu amavi di un amore puro e vero nella sua integrità, eri capace di catturare l’ immenso con uno sguardo, di afferrare il cielo con una mano. Ma la tua natura ti impediva di amare; la tua natura mi impediva di amarti. E così, senza una parola, né un sorriso né un gesto, mi hai fatto capire, mi hai fatto sentire l’ amore. Un amore neanche cominciato, già finito. Un’ ambulanza arrivata troppo tardi. Io, dietro la finestra, non avevo avuto il coraggio di guardare. Il cane aveva seguito la tua scia, riconoscendo il tuo odore anche in mezzo a quelli insoliti, acri, improvvisi della morte. Un raggio di luce mi mozzò il respiro. Per te non c’ era più tempo; io potevo ancora amare, anche senza di te. Ma, come allora, non ci sono più riuscita. Le tue non-parole, i tuoi non-gesti, non li ho più ritrovati; anzi ora le parole e i gesti sono troppi, eccedono fino ad annullare l’ amore. Avrei voluto fermarmi per sempre su quella roccia, fissare il ricordo di te che correvi. Guardare te. La spiaggia, e tu. Il mare, e tu. La luce e il buio, la gioia e il pianto: tu. Il primo e ultimo, per sempre solo, impossibile amore. Francesca Erriu
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